La psicoterapia e il lavoro analitico sono relazioni di parola. Parola e linguaggio nel rapporto terapeutico, soprattutto in ambito analitico, ne sono i cardini fondamentali. La parola nel suo manifestarsi si appoggia sulla sotterranea struttura del linguaggio. La parola può dire o non dire, cioè può avere o non avere un significato analitico, nonostante essa sia detta. La psicanalisi infatti distingue tra parola piena e parola vuota. Il paziente può parlare per ore e non dire nulla. Non è raro sentir riferire da pazienti frasi del tipo: “sono contento perché ho parlato, perché mi sono sfogato”. L’analisi può assolvere anche a questa funzione ma non può essere questo il suo obiettivo sul lungo termine. Il permanere di questa modalità segnala un impasse nel lavoro terapeutico; il fatto cioè che il soggetto – e per quanto di sua competenza il terapeuta o l’analista – non riesce, appunto, a soggettivare Il proprio malessere, ovvero trasformarlo nella propria questione. Detto altrimenti, soggettivare la propria questione significa chiedersi quale sia la propria posizione in ciò di cui ci si lamenta, ossia assumerne la responsabilità. Questo non vuol dire colpevolizzarsi per le esperienze vissute ma interrogarsi sul ruolo occupato in esse e quindi collocarsi all’interno delle vicende della propria storia e non restare in posizione passiva, o, più precisamente, nella posizione dello spettatore. Non c’è spettatore che possa dichiararsi assente o ritenersi escluso dall’evento che vive.
Infatti, quando, ad esempio, si assiste a una partita di calcio i protagonisti sono i calciatori ma lo spettatore non è avulso dallo spettacolo, non è fuori scena. Egli stesso é parte dello spettacolo e soprattutto egli stesso partecipa secondo la propria soggettività a quel che succede.
Queste considerazioni aprono al tema della vittima. Per la psicoanalisi nessuno è vittima. Sia ben chiaro ciò non significa che colui che ha subito la prevaricazione, la violenze dell’altro non lo sia e non abbia quindi diritto giuridico ed umano ad essere considerato e difeso come tale ma per la psicoanalisi anche chi è vittima è stato – suo malgrado – “dentro la scena“. Quindi non ci sarà guarigione ed elaborazione delle ferite psichiche subite se non prendendo in conto la propria posizione, il proprio esserci in ciò che si è vissuto, anche quando ciò sia avvenuto contro la propria volontà.
Parola e linguaggio sono i fondamenti del rapporto terapeutico. La psicoanalisi è un luogo di parola ma la parola non sarebbe sufficiente nel lavoro analitico se essa prendesse solo la forma della recriminazione e del lamento. In altre termini, perché prenda senso la parola deve poggiare sulla soggiacente struttura di linguaggio. Infatti la parola proferita confusamente nel delirio psicotico produce quel fenomeno chiamato “insalata di parole” dove é all’evidenza lo scollegamento tra la parola e linguaggio.
La parola in questo caso è “fuori discorso”, cioè al di fuori di una strutturazione di linguaggio. Pertanto, fuori senso. Potremmo dire, un po’ semplicisticamente, che la parola è il software e il linguaggio l’hardware, senza il secondo il primo non sarebbe altro che brandelli sparsi senza alcun senso.
La parola che emerge, che sfugge, ė in quanto strutturata nel linguaggio che rivela tracce dell’inconscio.
Ed è in questo che si manifesta l’intervento dell’analista, ossia cogliendo nell’insieme delle parole dette dal paziente quell’elemento, quella parola che “sfuggita” al suo controllo rivela del suo inconscio, ovvero della verità occultata o rimossa. Ecco che allora, attraverso il lapsus, la contorsione sintattica, l’espressione linguistica inusuale o fuori contesto, la parola assume senso; non è più parola “vuota” ma parola “piena”. Parola che all’insaputa del soggetto é fuoriuscita dal recinto nel quale “ostinatamente” egli la teneva rinchiusa.
Abbiamo detto che il lavoro analitico ė fondato sulla parola. Sulla parola e, soprattutto, sul linguaggio. La celebre frase di Lacan: “l’inconscio strutturato come un linguaggio” evidenzia come l’inconscio non sia qualcosa di antecedente il soggetto ma nasca e si formi con esso. Ciò che certamente precede il soggetto è il linguaggio. Il piccolo di uomo viene agganciato e allo stesso tempo si aggancia alla parola. Attraverso la “marchiatura” del linguaggio, ovvero la mortificazione che ciò produce nel suo corpo, con effetto di perdita di godimento, diventa soggetto.
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