Cosa ci lascia il Coronavirus
Molti di noi sono stati toccati nel profondo dei propri affetti e delle proprie relazioni dall’epidemia di coronavirus.
Si può trarre qualcosa di positivo da questa esperienza da molti vissuta drammaticamente ?
Sì, questa esperienza ci insegna a guardare avanti. E’ fondamentale, seppure, soprattutto all’inizio, faticoso, guardare avanti.
Immaginare e poi intravedere un obiettivo, un progetto, che poi diventerà un cammino.
Nulla di complesso, o “importante” cominciando dalle cose semplici della quotidianità. Qualcosa che riaccenda lo sguardo su ciò che ci sta attorno: fare la spesa, cucinare, parlare o telefonare ad un amico, leggere, lavorare. Insomma ricominciare a vivere.
Tutti siamo stati “infettati”
E’ importante guardare avanti, dicevo, ma ciò non può avvenire in modo acritico, con un ottimismo di maniera, senza aver considerato le sofferenze ed i lutti patiti.
Tuttavia, non solo coloro che hanno vissuto i lutti più gravi si trovano confrontati agli effetti psichici – interiori – del Coronavirus. Potremmo dire che molti, se non quasi tutti, sono stati “infettati psichicamente”, nell’anima, da questo virus. E le tracce da esso lasciate si intravedono in un sotterraneo sentimento di inquietudine – fratello minore dell’angoscia – che molti lamentato in questo periodo. E’ stata l’irruzione violenta di un nemico sconosciuto ed inatteso e per questo ancor più spaventoso, come quei mostri notturni che talvolta appaiono negli incubi. Ma non era un sogno.
L’angoscia e la perdita della padronanza di sè
Questa pandemia ha toccato a livello profondo il senso di sicurezza, la padronanza di sé e la percezione di controllo sulla realtà esterna e sulla natura, soprattutto dell’uomo occidentale. Forse solo i terremoti erano rimasti a ricordare la precarietà umana.
È una condizione che sgomenta e crea ansia e infine angoscia quella data dall’impossibilità di dare un nome a ciò che sta succedendo; cioè di simbolizzare, definire l’evento a cui si è confrontati. Un’esperienza che ha proiettato con grande smarrimento l’uomo contemporaneo, ipertecnologico e scientista, in una esperienza psichica di sapore medievale.
Avremmo bisogno di un padre
Non siamo onnipotenti. E la realtà che stiamo vivendo ce lo ricorda in modo inequivocabile.
Siamo fragili e ci rendiamo conto di quanto avremmo bisogno di un padre che ci dicesse ciò che occorre fare e che sapesse dare le risposte. Un padre a cui il bambino, seppure il padre le risposte sicure non le abbia, si affida fiducioso.
Chi ha fede può cercare questo padre in Dio e nell’uomo; a chi non crede resta l’uomo. Per entrambi è necessaria la fiducia e, in ogni caso, per entrambi c’è l’incontro con la fragilità e la debolezza che li abita.
Il coronavirus e la liberi dall’ideale tirannico
Il riconoscimento della propria debolezza, direi della propria mancanza, è nel lavoro analitico il punto cruciale di svolta verso la guarigione o, come io preferisco pensare, verso la propria riuscita umana.
Liberi finalmente dall’obbligo di essere performanti, forti. Liberi dall’ideale tirannico che spinge verso l’impossibile. Libertà che è data dal riconoscimento del limite. Perché contrariamente a ciò che la cultura contemporanea ci vuole far credere, il limite non castra, non chiude, ma apre verso le possibilità.
Riconoscere il limite permette di guardare avanti
Questo perché nel momento in cui il soggetto riconosce e accetta i propri limite, riconosce anche le proprie potenzialità e la propria capacità creativa.
E’ questa condizione che permette di guardare avanti, di ripartire, non lasciandoci in una disperata assenza di senso.