Abstract: nel lavoro terapeutico il vuoto occupa un posto fondamentale. Occorre passare da esso, ascoltarlo, per trovare le possibili risposte al disagio psicologico. Ansia, fobia, dipendenza affettiva, depressione sono alcune delle manifestazioni che segnalano l’assenza di un dialogo con il vuoto, questa presenza silenziosa che ci abita e ci accompagna.
Il vuoto impone la sua “presenza”
Il vuoto: qualcosa da cui stare lontani, qualcosa che inevitabilmente impone la sua “presenza”.
Pensare, fare, mangiare, correre, comprare, parlare, viaggiare, intraprendere; azioni che spesso scaturiscono dal bisogno di sfuggire il suo avvicinarsi.
Eppure il vuoto è un luogo che abita il soggetto. Potremmo meglio dire: un non-luogo che abita il soggetto. Un non-luogo come quelli che la sociologia ha definito essere i centri commerciali, le stazioni, gli aeroporti, le aree di servizio autostradali. Luoghi frequentati da uomini e donne nei quali si sta per poco tempo, e solo di passaggio. Luoghi “mistici”, dove si può intuire in cosa consista l’esperienza dello spaesamento; quando il soggetto, non piu’ sostenuto dall’Io ideale, viene investito dalla realtà piu’ nuda e piu’ cruda che lo abita. Il Reale – nel linguaggio psicanalitico lacaniano – che tende ad irrompere sulla scena.
L’attacco di panico, fenomeno psichico molto diffuso, mostra questa dimensione di spaesamento e di presentificazione del Reale.
E’ il vuoto che si fa presenza. Ed è un vuoto che erroneamente viene definito come una vacuità, perché in realtà si tratta di un pieno, di un Reale indecifrabile ed innominabile.
I diversi livelli di presentificazione del vuoto
La pratica analitica mostra come diversi siano i livelli di manifestazione del vuoto e dell’esperienza soggettiva di esso.
Nella vita quotidiana di ogni essere umano, la sua stessa esistenza, il suo vivere, le attività e le azioni che egli compie: il suo essere attivo, muoversi, produrre, sono risposte che egli trova per regolare il proprio rapporto con il vuoto. Soluzioni normalmente inconsapevoli di questa loro finalità e positive nel loro effetto, finchè qualcosa nella vita del soggetto non interviene ad alterare questo equilibrio.
Un attacco di panico, una profonda insoddisfazione relativamente alla propria vita professionale, la fine di un rapporto affettivo, una difficoltà nella vita sessuale, un lutto che non trova una sua collocazione di senso. Eventi della quotidianità che disturbano il soggetto e lo rendono inquieto, a cui egli risponde, cercando di ripararsi da essi mediante la creazione di un sintomo: una fobia, una compulsione, un attaccamento parossistico all’altro, una dipendenza – nelle sua varietà contemporanee -, una delle numerose forme di manifestazioni dell’ansia. Tutte rappresentazioni del disagio; tutti tentativi di tamponamento dell’angoscia prodotta da questo incontro.
Il vuoto e l’angoscia
Soluzioni che il soggetto trova nel tentativo di arginare l’insorgere del vuoto. Di un vuoto, ripeto, che è in realtà molto pieno. Un vuoto che apre sul molto pieno del Reale.
Dalla noia, all’eccitazione, dalla depressione, dove tutto perde interesse, all’agire maniacale nel quale il soggetto si percepisce creatore illimitato: altre risposte all’insorgere del vuoto.
Quando il soggetto nella sua vita viene lambito da questa dimensione, prontamente la rifugge, percependo il terrore, la solitudine e l’abbandono insita in essa. Quando il suo tentativo di fuggirla non riesce per l’insorgere delle manifestazioni che ho esemplificato, crea un sintomo. E quando il sintomo diventa intollerabile e “disturba” la quotidianità del soggetto, allora si rivolge allo psicoterapeuta o allo psicanalista.
La richiesta che egli fa allo psicoterapeuta è quella di far cessare questo “disturbo”, chiede cioè una terapia che sia l’equivalente di uno psicofarmaco. E certe psicoterapie rispondono in questo modo, cercando di far tacere la manifestazione sintomatica, lasciando però inalterato tutto ciò che sta sotto di essa e che l’ha prodotta. Pertanto, se acquietata, non tarderà a ripresentarsi, magari in forma sintomatica differente. Il lavoro analitico, invece, mira ad avvicinarsi a ciò che ha prodotto il sintomo.
Occorre, cioè, darsi un poco piu’ di tempo per abbordare con la giusta misura e attenzione questo vuoto. E cosa fa il soggetto in terapia per evitare di avvicinarsi ad esso ? Ad esempio parla molto – senza dire nulla -, oppure tace molto – proprio per non correre il rischio di dire qualcosa di vero -, oppure dice ciò che immagina l’analista voglia sentirsi dire. Tentativi che mirano ad evitare il contatto con il vuoto. Atteggiamenti che normalmente avvengono inconsciamente. Con gli adolescenti, sollecitati dai genitori a rivolgersi allo psicologo, può succedere che questi atteggiamenti siano attuati consapevolmente. Atti che attraverso l’intenzionale opposizione all’altro dell’analista, sono diretti all’all’atro genitoriale e non solo.
Ascoltare il disagio prodotto dal vuoto nel lavoro terapeutico
Il lavoro analitico porta il soggetto, con i tempi e i modi necessari, ad ascoltare questa dimensione “altra” che egli avverte come pericolosa e straniante ma che gli appartiene intimamente. Ciò che Lacan chiama “extimité”. Un “altro” che è dentro il soggetto, che lo abita. Un intruso che in realtà è l’abitatore piu’ vero del soggetto. Un vuoto che si rivela un tutto pieno e con il quale occorre trovare una modalità di relazione, una misura. In altre parole un rapporto dinamico che non lo tappi ma allo stesso tempo non lo faccia irrompere disordinatamente.
Dicevo che sono diversi i livelli di “presenza” del vuoto. Il soggetto spesso si allontana, o se ne è allontanato troppo. Ha cercato, cioè, di tappare il suo manifestarsi e quando questa operazione è stata troppo consistente abbiamo le forme di disagio che sopra ho menzionato: fobia, ansia, dipendenza per citarne alcune.
Il vuoto è un compagno dell’essere umano, del “parlessere”. Un compagno silenzioso ma presente con il quale è bene cercare, con prudenza e saggezza, di entrare in relazione. Nel lavoro analitico o di una psicoterapia ad orientamento analitico è ciò che si cerca di fare, perché la salute psichica passa attraverso questo ascolto di sé e di ciò che le nostre parole, non piu’ vane, dicono. Approcciare il vuoto che ci accompagna è la via per trovare una misura di relazione con il Reale, con ciò che ci abita e che non sappiamo trattare e che quando emerge segnala l’assenza del rapporto con il vuoto tappato dalle parole senza senso, dall’agire frenetico, dal rigido mutismo.